Un momento

Ti e nell’attimo di un respiro la paura dell’esitazione, mi fermo incredula e due onde trasparenti di lacrime restano fra le ciglia incerte se tracimare sulle gote o essere risucchiate da un improvviso spalancarsi di occhi, l’odore è delle prime caldarroste, il rumore di una ruota che schizza una pozza, i piccioni gorgogliano, quanto può durare un attimo infinito di attesa, se scorre la vita a colori solo un nonnulla, ma nella stanchezza del tuo sguardo vedo la resa al Tempo, vedo il rammarico di cose non fatte, non dette, negate, vedo l’orgoglio di chi ha solo da prendere perché ha già dato.  Due mani circondano il mio viso  e due occhi orlati di grigio si chiudono scusandosi.Parole che sono impegni, speranze, progetti resteranno nella mente e capisco che non sentirò mai più dalle tue labbra, amo.

Oggi

Dai fammi un favore, non ce la faccio a salire le scale, vai tu a prenderla, ti faccio la delega.
Salgo di corsa le scale, le mattonelle di gres marrone orrende, ultimo pensiero frivolo della mattina, sul pianerottolo un banchino che vende azalee, aiutataci ad aiutare, la ringhiera rossa, la gente in attesa. Di botto altri corridoi, altre sale d’attesa, altri medici si susseguono come frame impazziti  e di colpo  il corridoio appare più lungo, la striscia gialla da seguire infinita, il cartello referti radiologia, la signorina gentile, pratiche firme, scorrono come su un monitor.
Guardo la busta marrone, chiusa.

Ricordo il perchè l’abbiamo fatta. Perché siamo stati qui solo ieri, perché era urgente.
I dubbi che abbiamo tornano prepotenti, ed ho paura.
Lì dentro una risposta che non sono pronta a ricevere. Ma la vita se ne frega di quello che ti aspetti e di quando sei pronta o meno. I passi sono diventati più lunghi eppure sono sempre allo stesso punto, il corridoio di ritorno vuoto, le sedie di ferro nero, le finestre col cielo grigio.

Non posso aprirla , non è mia, è la sua vita, ma è comunque il mio futuro.
Intravedo parole, mi siedo brevemente in punta di sedia,pronta a scattare, rifletto, l’accarezzo, è liscia e rigida. La luce è triste, l’aria fredda.
Crescere , quando si smette di crescere, quando ne hai abbastanza di prove fatte, quanti buchi ci vogliono sulla tesserina? La forza si trova, Gianna, la forza si trova sempre.
E di colpo sono su un letto di fianco al babbo , dai che non è nulla questa volta, dai che stai bene, lui che si gira e mi sorride ironico, io che gli pianto il naso nel collo a respirare il suo odore, lui sa e io non so .
Non si sa mai nulla, ma si sta lì, con l’amore che ti hanno dato e con la forza che trovi che spero che non mi si chieda di avere, adesso.
Non ancora. Non di nuovo. Non così per lui. Per lui.
Alzo gli occhi da quelle parole illeggibili.
Un manifesto della Fonte della parrucca mi informa che la Regione da un contributo di 250 euro per l’acquisto di una parrucca.
Quanto vale la vanità , quanto la speranza?
Non c’è altro che io possa fare, è tardi. Anche se sono solo pochi minuti, mi aspetta, la macchina è in mezzo.
Le scale sono le stesse ma scenderle è meno facile. Mi siedo accanto a lui.
La apro?
Ma certo aprila, non cambia nulla.
No, è vero, non cambia nulla. Scorro in un colpo d’occhio, cerco parole che ho imparato a conoscere, a temere, a odiare. Non le trovo.
E piango senza lacrime. Sono felice. Oggi.

50

La Chiesa era buia, fresca, vuota. Lo scaccino srotolava ancora la passatoia e tu aspettavi sulla porta con la sigaretta in mano e l’aria spavalda. La giacca troppo larga sulle spalle magre , la sicurezza che non avevi.
Si aspetta sempre una sposa anche se deve solo girare l’angolo per arrivare.  Anche alle sette di mattina, nell’aria di giugno, mentre tante cose ti frullano per la testa. Due battute coi parenti, i pochi che ti guardavano pensando al coraggio che avevi o forse alla incoscienza che avevi.
Lei era bella, con suo vestito corto, il suo cappello con le rose e i guanti bianchi. Sorrideva felice e fiduciosa, ma questa non era una novità, la sua bellezza ti passava sotto gli occhi da quando eravate bambini, aspettandovi sugli usci, lei con le trecce sempre sfatte, tu con il sorriso malandrino e il ciuffo ribelle.
Le sette e per te era forse già tardi, abituato a svegliarti alle 4, da tanto, da sempre.
Un’ora giusta, le sette, per sposarsi, aspettare pure il prete, che vi guardava con aria benevola, la stessa con cui ha guardato tutti noi per decenni. I suoi figli, le sue pecorelle e lui pecorella come noi.
Quella Chiesa, quel vuoto, quella donna, gli occhi che salgono al soffitto nella foto del ricordo, a chiedere aiuto o  la felicità o il sostegno nel dovere. Non lo sapremo mai. Andava fatto e l’hai fatto e in fondo era solo un’anticipare quello che tutti sapevano , che la Robi e il Beppe erano fatti l’uno per l’altra da sempre, per sempre.
La colazione a Fiesole, perché non ci può permettere altro che una dignitosa cioccolata e due brioche per brindare ad una nuova vita che cresce ma che non sarebbe mai iniziata,  una torta prestata per le foto di rito. La macchina prestata per il viaggio di nozze, breve, perché si torna e si deve lavorare e continuare la vita. Insieme. Una felicità in prestito perché la serenità è stata conquista quotidiana. Una famiglia che forse è l’unica cosa che t’è riuscita fare per bene.

Babbo.

50.  Festeggiamoli così babbo, solo con un numero, come eri solito fare ogni anno, un numero su un biglietto e sui fiori.

50. Avreste meritato di festeggiarli insieme. Avreste meritato tanto altro.

il filo

Ho tentato piu volte di seguire il filo del pensiero che è partito dall’osservazione casuale di un paio di signore incrociate al bar ieri dopo pranzo, quelle signore dall’età indefinibile ma che comunque non classificheresti mai come giovani ma nemmeno di mezza età.  Quell’invidia che mi assale ogni volta che vedo mani curate, capelli curati, vestiti ricercati. Mi dovrei dare pace una buona volta e il filo dei pensieri mi riporta all’attuale, alla contingenza, ai problemi veri, anche gravi, e mi assolvo nella convinzione  che le signore così hanno sicuramente qualcuno che le solleva dalle problematiche quotidiane.
Il filo si interrompe e riparte osservando altre realtà, altre certezze, e mettendo avanti le priorità, perlopiù altrui.
Viene fuori che certamente c’è qualcosa di sbagliato in me. profondamente sbagliato, forse ha ragione la Clio, è tutta colpa delle suore. O forse è solo carattere, o forse non è nemmeno giusto dare la responsabilità a terzi. Anche perché è inutile.
Ed allora il filo riparte. Certo avere l’apprezzamento di chi sta intorno è importante, ma quand’è che in questa società è diventato basilare? E poi da basilare è diventato identificativo e poi  imperativo e da lì problematico e da problematico è diventato inarrivabile. Almeno per me.
Ho pensato a mia madre con le sue mani mai curate, con i suoi calli, con le sue dita mozze o col suo viso sempre struccato, mentre il filo cerca di chiudere il cerchio trova altre anse, altre vie, include e si allarga, avrei potuto sguazzare in ricordi di adolescenza, modelli femminili popolari, sguaiati, ignoranti rivendicare la mia capacità di parlare decentemente di scrivere con compostezza, di pensare in maniera logica e schietta, il mio essere simpatica, aggregante, ricercata. Ma il filo non si chiude ancora e pare non bastare il mio voler essere sincera. Avrei potuto chiamare a mia difesa allora il lavoro, le responsabilità, la casa, il marito, i soldi, gli impegni, la tiroide, i medici e le loro teorie da provare sulla mia pelle, avrei potuto aggrapparmi alla pigrizia vera o presunta, avrei potuto scomodare Freud e Jung e il metabolismo basale, gli incroci casuali, gli ascendenti astrologici e il livello di cortisolo o il mio rifiuto profondo e automatico di aderire a qualsivoglia modello. Tutto lo sforzo teso ma  ingarbugliato per capire cosa c’è che non va in me.
Riperdo il filo e metto di nuovo la testa su quello che devono fare le mani, gli occhi, il pensiero. Chiudo un attimo gli occhi, spaventata dal non vederne la fine.Spaventata dal capire.
Non è un filo, sono solo frammenti di verità come gocce su un vetro. Nessuna e tutte. Aspettano solo un gesto che le unisca. E io ora non ce la faccio. Serro la gola e non ci penso.
Le cose sono semplici. Sono povera, sono banale, sono sciatta, sono stropicciata. Sono grigia.
Sono quella che sono.
Devo solo trovare la forza di smettere di starci male.

buio

Le dita enormi, scure, perennemente pervase di tagli nei calli. Chissà com’erano nonno le tue mani da bambino. Erano mani povere Giagina, erano mani di un pastore, erano mani di un analfabeta, erano le mani che tagliavano il pane con rispetto. Gli occhi tondi, grandi e dolci come quelli di un elefante saggio. Chissà com’erano da piccolo i tuoi occhi , nonno.
Erano occhi che hanno visto i piatti grandi in mezzo al tavolo, hanno visto le case arroccate sui monti, le pecore e le mucche sotto a scaldare la famiglia.

Giagina, sono stato un bambino che non ha mai saputo cos’era il gioco, mi alzavo col buio e col buio tornavo, io e le mie pecore e i pascoli e il bosco. Una fanciullezza di solitudine e buio. Era buio Giagina quando sono tornato una notte e mi sono buttato sul letto, ho fatto compagnia alla mamma e lei già non c’era più. Era buio Giagina quando sono partito per Firenze, salutando i fratelli che forse non avrei mai più rivisto. Sparsi nel mondo a servire gli altri, sparsi nel mondo a perdersi di vista, a cavarsela da soli.
Fratelli nemmeno di cuore.
Erano altri e nessun’altro i miei fratelli, la mia famiglia. Il lavoro Giagina, quello duro, quello che si impara anche sui libri, libri pieni di parole sconosciute. C’è fatica Giagina a farsi da se, a mettere numeri e formule e precisione nella testa di chi ha sempre munto pecore e vagato nel buio fischiando al fuoco. Ma tu nonno ce l’hai fatta, perché sei il mio nonno, perché mi hai donato quella caparbietà silenziosa, quella umiltà di chi sa di non sapere, ma non si arrende perché c’è sempre da imparare dicevi nonno, vero?

Si Giagina, io ho imparato, da solo, e com’erano belli i pezzi e com’erano lucidi quando uscivano da sotto la mia pulitrice, com’era perfetta la mia cromatura, erano la luce che non avevo mai avuto. E li avevo fatti io. Io, Gino , quello venuto di fuori , quello che la vera famiglia l’ha trovata nel quartiere dov’era lei, la Pirina. Era bella Giagina, la Parigi, aveva occhi vivaci e luminosi. Anche lei era la luce dopo il buio Giagina e per lei non mi è importato cedere il mio nome ed essere assimilato al suo. In fondo qual’era la mia famiglia? Dov’era? Con chi era? Era con lei che era solida, era viva. Ed era anche lei senza nessuno, madre di tanti fratelli.
Guarda la nonna, Giagina, guarda come ha combattuto sempre, guarda come ride.
Chissà se l’ho mai resa felice, chissà se dopo la guerra, le malattie, le disgrazie, le bastava il mare d’estate, il ristorante di domenica, la montagna di luglio. Chissà se le è bastato il mio amore o se quel vaffanculo con cui ci ha salutato per sempre era solo il suo carattere o la sua infelicità.
Chissà nonno, chissà se basta mai l’amore, chissà perché scrivere di te mi fa essere fiera di esserti nipote, tu che mi hai insegnato a fissare l’amo, tu che mi hai regalato la prima bici, tu che consideravi ricchezza un fagottino di prosciutto dolce, tu che non hai mai punito nessuno col digiuno, perchè sapevi cos’era la fame e quanto sia ingiusta, tu che hai scacciato il buio per tutta la vita, dove sei quando adesso ho buio dentro. Si trova la luce nonno? Si trova , un giorno, la luce, nonno? Si trova?

Così

Era il 1961 e quindi io non l’ho mai conosciuto, si chiamava Andrea, aveva 5 giorni, ed è morto.
Un fratello che non ho mai visto ma che ha pesato nella mia vita proprio per la sua assenza.
Morì di setticemia contratta in ospedale, anzi in una clinica di quelle private a pagamento.
Ma nessuno fece niente? Abbiamo sempre chiesto a mia madre
Che vuoi, a quell’epoca … e poi fra medici non ci si azzanna.

L’anno prima era già morta mia sorella Marina, nata prematura e scaldata con borse dell’acqua calda in mancanza, nella solita clinica privata, di culline adatte.

Quell’epoca è quest’ epoca ?
Ecco, oggi, due storie così, di due bambini così, in un ospedale così, cinquant’anni dopo. Così.
Bambini di qualcuno, fratelli di qualcuno, nipoti di qualcuno. Presenze che erano vive, che hanno vagito , che sono state amate, guardate, toccate, annusate per brevi attimi e che sono perdute così, per uno sfregio alla loro fragilità estrema, nel loro affidarsi innocente a noi che avremmo dovuto tutelarli.
Io ho sofferto per quei fratelli che non ho mai avuto, per quei bambini mai conosciuti ma chiamati sempre per nome.

Un nome che è l’unica cosa che ci è rimasta.
Così.

Natale

Secco secco, naso importante, un orecchio senza un pezzettino, i capelli portati all’indietro ed un vago odore di canfora.
Caramelle di orzo. La polverina per digerire.
Il caffè con la napoletana, con una miscela di sua invenzione, orzo, la Vecchina, miscela Frank e il Moretto.
Una passione per la lirica, gli occhi umidi per la Lucia di Lammermoor e il Vissi d’arte di Tosca.
Carattere difficile per non dire difficilissimo, scontroso, burbero, maldisposto. Bestemmiatore feroce, di quelle Madonne e quei Cristi improbabili che generano ilarità piuttosto che sdegno.
Il quadro dei morti sul comodino col lumino, per ciascuno la commozione di un ricordo, e i cimiteri, luoghi di pace “non devi avere mai paura dei morti, ma dei vivi”
Una sua gioventù di miseria estrema, una famiglia di tre donne sorelle e 32 figli, piattone in comune di polenta e pattona, mercato nero e piccoli espedienti .
La guerra, quella vera, la prima mondiale, fatta di trincee e di morti vis-a-vis. Uno di quelli del ’99. Una ferita profonda, indelebile, un pianto continuo, quante sere a raccontarci i giorni passati camminando per trovare su un altro fronte il fratello per abbracciarlo un minuto e tornare indietro, scavalcando nella neve i compagni meno fortunati.
Una vita difficile, ma dignitosa. Un lavoro duro. Una minima tranquillità economica che faceva della sua piccola famiglia l’unica che potesse dare nella strada del quartiere popolare una fetta di pane e olio per merenda al figlio.

Un’altra guerra,una moglie amata e perduta. L’impegno per la categoria, il suo essere comunista, il suo essere despota e litigioso.

Un tormento interiore che nessuno di noi ha mai capito se non con la riflessione dell’età adulta.
Tanto. Troppo.
Ha scelto il momento per andarsene una fine dell’anno. Unica cosa scelta in una vita che non gli aveva dato nemmeno una data di nascita certa.
Nato non si sa quando in questi giorni di centodieci anni fa, tenuto nascosto per essere tirato fuori, come il bambinello del Presepe per guadagnarsi il cibo ed un corredino omaggiato dalle dame della carità, primo atto di una vita che non gli ha regalato più nulla.
Per tutti era Natale, ed era mio nonno.

Gianna detta la Giagina

I fiorentini hanno elevato l’usanza di “mettere soprannomi” ad un arte di ironia pura. I nick, così come noi li conosciamo, e come i più giovani li intendono, sono solo la pallida derivazione di un uso popolare della sintesi e sono tutt’altra cosa dai soprannomi.
Il nick ciascuno lo sceglie per sè. Il soprannome te lo danno gli altri, è una sintesi ironica di quello che sei, di quello che hai fatto, di come ti vedono.
Il nick comunica quello che vorresti essere
Il soprannome comunica quello che sei.
Tradizione millenaria, alcuni sono entrati nella storia non tanto per il nome quanto per il cognomen che in antichità era spesso derivato un soprannome, che finiva per identificare una famiglia. Prendete Cicerone, detto così per un bozzolo sul naso grande come un cece di un suo avo.
Io son Giagina, che è un vezzeggiativo/nick/soprannome. Il che lo rende molto vicino a definire chi sono.
Ma la storia dei miei soprannomi non finisce qua.
Il mio nonno paterno mi chiamava, da piccola “la francesina”, per un certo stile, che ovviamente, si vedeva già in tenera età, poi son stata “la secca” o “l’Olivia” in quanto filiforme (lo so difficile da credere) ma con una solida base : due piedi lunghissimi.
Gli amici nel periodo dell’adolescenza mi chiamavano “Tronchetto” , eh si , forme zero, punto vita inesistente, poi sono esplosa e a meno che di non variarlo in Baobab era difficile proseguire nell’uso del soprannome. Nel quartiere dove sono cresciuta per tutti ero la “nipote della parigi” dal cognome di mia nonna, che convengo non è un soprannome, ma per molti era l’unico nome che avessi.
Una volta ho avuto anche un soprannome in coppia. Eh si, insieme a mia sorella , nella compagnia degli amici ci chiamavano “le gemelline di shining” cioè un incubo.
Ma io sono recente, ci sono soprannomi nel mio quartiere, o più in generale nella mia città. che fanno la storia, percorrono vite, inquadrano mondi riassunti e comunicati in una parola.
Conoscerete il bel mondo fiorentino e sanfredianino attraverso i vari vedovini, barabao, pallonzole, i’gobbo, la suzzella… in un quartiere dove perfino le case e le pietre delle strade avevano un nome.
La storia della mia famiglia ebbe inizio da Fernando detto i’senzamascella, il nonno di mia mamma, ma questa è un’altra storia.